Intervista a Chiara Mio
La professoressa dell’Università Ca’ Foscari di Venezia parla dei fattori ESG
Sul tema dell’integrazione dei fattori ESG (Environmental, Social, Governance) nella strategia imprenditoriale, della trasparenza e sull’evoluzione della rendicontazione di sostenibilità, Soft&Green ha voluto sentire l’opinione di Chiara Mio, economista nota a livello internazionale, professoressa ordinaria di Economia aziendale all’Università Ca’ Foscari di Venezia e consigliere esterno del Consiglio di Amministrazione di Sofidel.
Da molti anni lei parla di un nuovo paradigma dell’economia aziendale e dell’approccio responsabile come modalità per creare valore per le imprese e per la società nel medio lungo termine. A che punto siamo? E in un momento in cui si parla molto di sostenibilità, cosa dovrebbero fare le imprese per essere sostenibili?
Vi è un’aspirazione diffusa ad ottenere la patente di sostenibilità, perché si è capito che il mondo va in quella direzione. Tuttavia, c’è ancora un po’ di confusione e sono ancora tante le realtà imprenditoriali che confondono le pratiche sostenibili con la responsabilità sociale o con slanci di charity.
In realtà sono tre concetti diversi: charity, la beneficenza, è un atto che non cambia il sistema e anzi, paradossalmente, per essere praticata ha bisogno che esista l’ingiustizia; CSR, la responsabilità sociale d’impresa, interviene in un’ottica end of pipe, pone un filtro in fondo al processo per limitare le esternalità negative, ma non cambia il modo in cui il processo funziona; solo la long term value creation, o sostenibilità, interviene sul modo di produzione, modifica filiere e impianti, riprogetta i prodotti alla radice per evitare i danni ambientali e sociali.
Il mio osservatorio mi dice che in Italia la situazione su questi temi è a macchia di leopardo ma migliore di come viene narrata. Il nostro Paese può contare su un modello di capitalismo di prossimità responsabile, basato su imprese familiari che sono naturalmente votate alla sostenibilità. Si tratta di aiutarle a tradurre questa loro vocazione intrinseca, farla venir fuori e declinarla e interpretarla in chiave moderna secondo le direttrici ambientali e sociali.
Quello che ha generato i disastri della fine del 2008 era invece un capitalismo di opportunismo. Lo short termism è antitetico alla sostenibilità. Fortunatamente oggi si registrano buoni segnali dal mercato: moltissimi fondi di investimento, soprattutto quelli che gestiscono le pensioni, i risparmi, ciò che deve garantire reddito e flussi di denaro fra venti o trent’anni a chi investe, scelgono solo aziende che possono documentare e irrobustire la loro sostenibilità. E non solo e non tanto perché è più giusto, ma perché quelle aziende sono meno rischiose. Si instaura così un circolo virtuoso. Imprenditori e manager devono invece chiedersi: “fra dieci o venti anni come sarà la mia azienda, come voglio che sia?”.
Devono volere che la loro azienda non solo sia ancora sul mercato ma che lo sia dando anche qualcosa alla comunità.
Nel suo ultimo libro, “L’azienda sostenibile”, sottolinea l’importanza di raccontare solo quello che realmente è stato fatto. Ci spiega meglio il suo pensiero?
Prima che una teoria economica è una regola di vita: la comunicazione che “passa” di più è quella che esprimiamo con i fatti, con i nostri comportamenti. La credibilità deriva dalla coerenza e dalla trasparenza. Quando imprenditori o manager scettici mi chiedono perché la loro azienda dovrebbe essere sostenibile non si rendono conto che è un po’ come domandare: “perché devo comportarmi bene?”. È una questione di valori: se mancano quelli, viene meno qualsiasi proposito di sostenibilità. Esiste però anche un evidente tema di opportunità. Oggi abbracciare la sostenibilità significa, non solo seguire una tendenza generale del mercato, ma poter ottenere maggior credito finanziario e a costi minori. E significa anche attrarre risorse umane giovani e di qualità, perché i ragazzi della Generazione Z chiedono di lavorare in aziende sostenibili dove possono conciliare bene il tempo lavorativo e quello personale.
Rendere misurabile la sostenibilità è un argomento di grande attualità. Quali sono i principali indicatori riconosciuti a livello internazionale e quali saranno le evoluzioni future? Vi è un problema di omogeneità degli standard/criteri?
Misurare non è l’obiettivo, è un’azione strumentale: perciò rispondo “dimmi perché si vuol misurare e ti dirò come”. Poiché la sostenibilità intercetta plurime dimensioni (ESG), molti fini e diversi stakeholder, è praticamente impossibile avere l’unica misura valida erga omnes. Non si tratta solo di un limite operativo: il valore ambientale, sociale ed economico non può essere espresso in valuta o in unica misura universale! Si tratta invece di riconoscere che differenti stakeholder possono attribuire valori diversi allo stesso risultato: ogni azione, ogni effetto dell’attività aziendale è poli-semantico. Semplificare può voler dire distorcere o banalizzare. Per vari anni assisteremo ancora ad una fase di analisi delle differenti prospettive di lettura; solo dopo aver consolidato una capacità di lettura a più registri e dopo aver raccolto e schedato in filoni tali prospettive, si potranno concordare grammatica e regole per misurarne l’applicazione.
Per concludere una domanda che va oltre il tema della rendicontazione. Da alcuni anni è presidente di Crédit Agricole FriulAdria, prima donna in Italia a capo di una banca. Quali sono, se ci sono state, le maggiori difficoltà che ha incontrato in questo incarico?
Non è un tema estraneo a quello della sostenibilità. L’azienda di cui faccio parte ha dimostrato lungimiranza e coraggio in questo senso, anticipando una sensibilità che poi abbiamo ritrovato negli obiettivi dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Quindi, posso affermare di aver operato in questi anni e di continuare ad operare oggi affinché la leadership plurale sia il modello vincente: quando in un’azienda prevale un unico orientamento (maschile) e si ignora la ricchezza delle idee plurali, si sprecano risorse e si mortificano le persone (in questo caso le donne). In generale, credo sia auspicabile, a 360 gradi, non solo nel mondo finanziario ma anche istituzionale e politico, la diffusione di modelli plurali di leadership. Quanto è positivo lavorare in aziende dove le persone sono rispettate, ascoltate e valorizzate: è una condizione che dovrebbe essere normale, soprattutto perché vincente e fruttuosa da ogni punto di vista!