La dimensione sociale della transizione ecologica

La dimensione sociale della transizione ecologica

Sul tema dei costi sociali della transizione ecologica Soft&Green ha voluto sentire l’opinione di Angelo Russo, Professore Ordinario di Economia e Gestione delle Imprese e Prorettore alla Ricerca e alla Sostenibilità dell’Università LUM Giuseppe Degennaro di Casamassima (Bari).

Professor Russo quando si parla di transizione ecologica la dimensione sociale non sempre viene considerata con la necessaria attenzione. Per esempio se quasi tutti concordano sull’urgenza della transizione energetica non sempre viene analizzato l’impatto sociale delle politiche ambientali. Qual è la sua opinione al riguardo?

La dimensione sociale è trascurata e troppo spesso relegata, per usare un eufemismo, in secondo piano rispetto alla transizione ecologica. È sicuramente vero e innegabile che ci sia una questione ambientale che, a livello globale, merita l’attenzione di tutti: se da un lato sono convinto che non si stia facendo ancora abbastanza da parte di governi, di imprese e di cittadini, è pur vero che il PNRR rappresenta un’ottima occasione per dare slancio alla transizione. Ritengo, dunque, che medesima priorità debba essere data all’impatto sociale associabile a tutte le decisioni prese con riferimento alla transizione ecologica. Esiste un grande equivoco, su cui si dovrebbe far chiarezza. Spesso sento dire che la transizione ecologica, in senso lato, porterà alla perdita di posti di lavoro e, per dirla in termini poco utilizzati, a un impatto sociale negativo. Non credo sia questa la prospettiva giusta da cui analizzare il fenomeno. Se parliamo di transizione, allora deve essere una transizione tanto ambientale quanto sociale. “Transizione” vuol dire passaggio da una condizione a un’altra. L’utilizzo di tecnologie green, il cambiamento verso processi produttivi a minor impatto ambientale, l’introduzione di prodotti eco-friendly, l’utilizzo di fonti energetiche alternative e rinnovabili, la diffusione dell’idrogeno sono semplici esempi di quanto la transizione possa essere impattante, in senso positivo per l’ambiente naturale, se ben gestita. La diffusione dell’auto elettrica o dell’auto a idrogeno, per citare solo un esempio, deve essere analizzata e gestita anche dal punto di vista della transizione sociale. Chi oggi lavora sulla linea di montaggio di un’auto tradizionale (intendo, con motore a combustione interna) domani lavorerà sulla linea di montaggio di un’auto elettrica o a idrogeno. L’indotto e gli attori di filiera che oggi producono componenti per un’auto tradizionale, domani produrranno componenti per un’auto elettrica o a idrogeno. Sono preoccupato dalla miopia del sistema produttivo e di governo che non è in grado (o non vuole) di prepararsi per tempo al cambiamento, alla transizione. Servono investimenti (il PNRR a cui accennavo è la fonte di finanziamento più attuale e opportuna) in formazione per adeguare le competenze dei lavoratori coinvolti nel sistema produttivo: associare una transizione sociale alla transizione ecologica. Non si può aspettare, pensando al sistema Italia, che arrivino competenze dall’estero. Questo sì, genererebbe un costo sociale smisurato, nel senso negativo del termine. Gli investimenti sociali legati alla transizione ecologica sono oggi la vera scommessa e la vera strada da perseguire.

La transizione ecologica è un percorso complesso che richiede un approccio interdisciplinare a livello globale. Per poter parlare di “giusta transizione” quale dovrebbe essere l’approccio che i diversi attori pubblici e privati dovrebbero adottare?

A mio parere ci sono due parole chiave che dovrebbero essere prese a riferimento per indirizzare strategicamente la gestione della transizione ecologica (e sociale): integrazione e collaborazione. Con integrazione intendo l’integrazione tecnologica a beneficio della transizione verso sistemi già oggi eco-efficienti, che però dovrebbero puntare verso una ancora maggiore eco-efficacia. Non è sufficiente, per esempio, investire su tecnologie green se queste sono pensate come un evento isolato, per quanto efficienti dal punto di vista ambientale. Il passaggio verso modelli eco-efficaci, in grado cioè di portarci verso livelli di produzione a zero impatto richiede l’integrazione tra diverse tecnologie. Si pensi, per fare un esempio, agli investimenti nell’edilizia supportati dagli incentivi governativi che si sono diffusi negli ultimi anni. Un cappotto termico consentirà sicuramente di ridurre la dispersione di calore di un edificio e, di conseguenza, di ridurre il costo energetico (economico e ambientale) dell’immobile. Se però non è integrato con l’utilizzo di altre tecnologie, quali pannelli fotovoltaici, impianti di geotermia, fino ad arrivare all’installazione di colonnine elettriche per incentivare la mobilità sostenibile, resterà una tecnologia isolata e non integrata che difficilmente abbatterà del tutto le emissioni ambientali. Per raggiungere questi obiettivi serve, a mio parere, la seconda parola chiave: collaborazione. È indispensabile che si sviluppino nuovi modelli di business fondati sulla collaborazione e sullo scambio continuo di risorse tra player di filiera, fino ad arrivare alla collaborazione con il cliente finale (spesso, noi cittadini). Ho in mente prima di tutto lo scambio di risorse intangibili: conoscenze, competenze, know-how, idee. Solo modelli imprenditoriali sempre più aperti possono incentivare realmente la transizione (ecologica e sociale).

Molte imprese stanno investendo molte risorse per introdurre importanti cambiamenti nei processi e nei prodotti. Quali sono secondo lei le evidenze più significative? Quali paesi in Europa, ma non solo, hanno adottato strategie innovative?

Sono personalmente molto affascinato, sia da studioso di impresa sia da cittadino/consumatore, dalle esperienze che si stanno registrando nei cosiddetti contesti bottom-of the pyramid (penso al Bangladesh, al continente africano). Esperienze imprenditoriali di imprese, tipicamente profit, che collaborano con organizzazioni locali, tipicamente non profit, per la creazione di nuova industria: nuovi processi produttivi, nuovi prodotti, nuovi modelli di business, con la finalità di incentivare il cambiamento proprio nella direzione della transizione ecologica e sociale. Ancora una volta, dunque, serve collaborazione per l’integrazione di conoscenze. Creare industria in contesti oggi ancora in ritardo è l’unico modo per supportare il cambiamento e il rinnovamento, favorendo la creazione di cultura, benessere e, in ultima istanza, ricchezza. Il problema è che sono ancora esperienze limitate a pochi casi, dove però il ruolo di attori istituzionali, pubblici e privati, si sta provando a fatica a fare largo. Penso anche alle università, dove queste tematiche sono ancora poco insegnate. Ecco, dovremmo essere in primis noi accademici a salire sul banco degli imputati e incentivare maggiormente la diffusione di conoscenza più adeguata all’attuale transizione.

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